12 set 2012

diavolo .......LA LEGGENDA DEL MONTE AVARO

















LA LEGGENDA DEL MONTE AVARO

Lo stretto e ripido sentiero, che dal paese conduceva ai piani del monte Avaro, penetrava la fitta boscaglia dei castagni e dei robusti faggi dalla corteccia bruna.
I grossi ciottoli e le ampie buche, causate dal rapido scorrere delle acque durante i forti temporali dell'ultima settimana d'agosto, dimostravano la scarsa attenzione dei montanari per quella via.
Nessuno si era preoccupato di riassettare e ripulire dalle erbacce quel viottolo fuori uso e la sua sorte, tipica di tutte le vie di montagna abbandonate, era quella di trasformarsi in torrente alluvionale: asciutto tutto l'anno e percorso da acque violente solo durante i forti temporali estivi o allo sciogliersi delle nevi.
Il vecchio Giovanni, camminando con un'energia insolita per la sua età, borbottò contro il mercante di formaggio della città che, a sentir lui, anche quell'anno era riuscito a far fortuna sul prezzo della sua merce: -Maledetto cittadino, con i tuoi discorsi mi confondi e poi ottieni quello che vuoi! Il mio formaggio tu lo vendi il doppio o il triplo di quanto me lo paghi!-
Parlò come avesse di fronte il suo nemico: con un gesto istintivo agguantò il suo berretto grigio, tanto malandato che nessuno sapeva quando l'avesse posto sul capo per la prima volta, e lo torse, come fosse stato il collo del suo furbo acquirente.
L'alta erba secca, sul bordo del sentiero, con il suo colore giallo spento, che è il primo indizio della fine dell'estate, si illuminò al sole del tardo pomeriggio che, penetrando di sbieco, mostrò l'interno nascosto del bosco.
I cespugli verde scuro degli agrifogli, con le loro foglie lucide, riflettevano sfumature blu, gialle.
Le bianche campanule risaltavano tra il rosso dei ciclamini e osavano comparire fra il groviglio confuso e aspro degli arbusti.
Uno strato di fogliame, che sarebbe dovuto servire come letto per il bestiame, si era trasformato, mischiandosi al terreno negli spazi liberi dalla vegetazione, in humus color terracotta.
In quell'area le frane e le slavine avevano scavato una scarpata nel terriccio, causando la rovina di parte del viottolo.
Giovanni conosceva bene quella zona pericolosa e, per evitarla, era solito addentrarsi nella macchia poco prima del viscido terreno franoso: si aggrappava a qualche solido ramo e spingeva il suo nodoso bastone sotto qualche sasso, aggirando con prudenza
la difficoltà.
Quel giorno, per il suo risentimento verso il mercante, non si ricordò della deviazione e andò oltre, sino alla zona rovinata.
La fretta gli bruciava l'anima.
In preda alla paura angosciosa che tutti lo volessero derubare, non perdette tempo, preferendo superare direttamente il tratto di sentiero pericolante.
Gridò con quella voce che gli usciva, forte e cattiva, solo nei momenti di furia: -Satanasso! Non ho tempo da gettare, ho i vaccai da controllare! Quei ladri, se non mi vedono, mi derubano di metà del latte della mungitura serale!-
A guardare il suo corpo, magro e piccolo con le spalle deformate dall'artrite, si sarebbe detto che non avrebbe mai potuto oltrepassare quel passaggio difficile.
Invece quel fisico minuto era fornito di una forza innaturale, che non l'avrebbe fatto sfigurare in competizione con gli uomini più robusti del paese.
Si raccontava che fosse stato il Diavolo, suo amico personale, a fornirgli tutta l'energia che si teneva in corpo.
Pulì il fondo delle scarpacce, chiodate ormai chissà quante volte dal calzolaio del paese e pose con molta sicurezza i piedi su quel che era rimasto del sentiero: uno stretto cornicione poco rassicurante.
I primi passi non gli dettero alcuna difficoltà o incertezza.
La sua baldanza fu la causa di un piccolo slittamento del piede sinistro.
Si ristabilì, dopo aver bene accentuato la stretta ai sostegni delle mani e controllò con calma la suola della scarpa scivolosa, ripulendola contro un sasso dal fango argilloso.
-Diavolo dell'Inferno!- Imprecò, più per smaltire la paura dello scampato pericolo che per rabbia.
Le sue decisioni non conoscevano ripensamenti e lui non ritornava
mai sui suoi passi.
-Che il Diavolo si prenda chi ha costruito questo sentiero!-
Ricominciò con le sue maledizioni, che non risparmiavano niente e nessuno.
Continuò ad avanzare, lentamente e cautamente, con un po' di timore.
La mano destra tastò alcuni massi immersi in una vegetazione spinosa poi, con le dita graffiate dai rovi, cercò senza fretta qualcosa di stabile.
Alcuni sassi precipitarono nella scarpata, fra il frastuono prodotto dallo spezzarsi di rami secchi.
Finalmente riuscì ad agguantare una robusta radice, avanzando mezzo metro con uno slancio ardito paragonabile a quello di una delle sue capre.
Si trovò al centro della frana e vide che, nell'ultimo tratto, il cornicione si assottigliava ancora: ormai non era capace di ripiegare, perché il rischio di una caduta era identico sia se avesse proseguito o sia se fosse tornato indietro.
La forza rabbiosa delle braccia gli fecero rinnovare, sorprendentemente, la stretta delle dita sugli appigli con volontà autonoma; lui stesso si stupì del suo attaccamento alla vita.
La calma aggressiva si trasformò in paura ansiosa: più volte, come un animale furioso, cercò un nuovo appiglio fra la vegetazione e i suoi atti si ripeterono rapidissimi.
Con la mano arraffò e strappò tutto ciò che trovò tra i rovi.
Una radice molto grossa, di cui non controllò la consistenza, gli parve la salvezza e si gettò su essa.
I piedi prima penzolarono poi, veloci come quelli di un ragazzo, tentarono disperatamente di trovare qualcosa di stabile su cui posarsi.
Le mani sentirono il peso eccessivo di quello sforzo e allentarono la morsa.
Con un piede colpì un pietrone molto solido, nella furia della ricerca di un appoggio, su cui pose un ginocchio e poi l'altro, barcollando e trascinandosi ad una posizione sicura.
Volle riprendere fiato e il controllo di se stesso, sostando per poco: respirò nel modo affannoso dei cani da pastore che, dopo aver rincorso il bestiame, si arrestano un istante e poi ripartono.
Mancava solo un metro parzialmente esposto al burrone ma, grazie alla ritrovata calma, l'uomo lo percorse con tranquillità.
Uscito dal pericolo cedette alla stanchezza e si lasciò cadere su un tronco umido, per ritrovare la lucidità dopo il grosso spavento.
La paura, in quell'uomo coriaceo, non poteva abitare che pochi istanti: il suo pensiero riprese il continuo calcolo delle sue proprietà, dei furti e degli affari.
La sua avarizia era giunta a bestemmiare l'opera del buon Dio che, lasciando coperto di massi e di pietrame di ogni misura i piani del monte Avaro, non aveva completato la sua opera.
Era per lui un dolore vedere che tutto quel pascolo non poteva essere utilizzato completamente.
Grazie alla forma conca dei piani del monte, che tratteneva l'acqua, l'erba cresceva abbondante e verde, più che sufficiente al bestiame del vecchio, ma a lui non bastava.
Mai si sarebbe considerato soddisfatto se, prima di morire, non avesse trasformato i piani in prati puliti: -Io ho tutte quelle pietre sulle mie terre, invece nei pascoli meno floridi e in pendenza, non c'è un sasso! Sono così ordinati da essere più morbidi dei tappeti della chiesa: quelli che si usano sole nelle cerimonie per la patrona Santa Margherita!-
Si levò, nonostante i dolori e gli scricchiolii del suo corpo e riprese la salita.
Più si andava in alto e più il bosco si diradava, divenivano più fitte le piante di lamponi dai frutti abbondanti.
Dei fiori, simili a margherite gialle, drizzavano le corolle verso il debole sole serale, con i petali ampi e appariscenti, quasi orgogliosi.
In paese la vita del giorno lavorativo dette gli ultimi segni e i contadini tornarono dai campi.
Le campane suonarono l'Angelus, che segnava il crepuscolo, con
quel suono morbido che solo la distanza può dare, rimbalzando e
smorzando l'acuto dei bronzi sui prati e contro i boschi.
Quasi sul finale della salita, lungo il fianco del monte, il suono delle campane si udì come un richiamo dolce e lontano, che la parte intima del vecchio recepì come una malinconica preghiera per la salvezza della sua anima.
Su un dosso del monte Avaro sembrava che il sole non volesse tramontare e uno strano individuo stazionava placidamente, immobile e impassibile.
Il vecchio Giovanni si fermò un istante per capire chi fosse, credendolo uno dei suoi montanini, ma, non riconoscendolo, disse a se stesso a voce alta: -Nessuno, fra i miei uomini, veste abiti così scuri! Quello è sicuramente un forestiero!-
Giovanni provava diffidenza per tutte le persone ma, per quelli fuori paese, nutriva una certa ostilità.
Si diresse verso l'intruso per guardare bene in viso chi si permettesse di calpestare la sua erba.
Il vecchio, mentre si stava avvicinando, indagò altri particolari nel volto e nell'animo del forestiero, accrescendo il suo disagio.
L'abito dell'intruso fu l'argomento di maggior interesse: era una nera palandrana che si sdoppiava sulla coda, avvolta con cura sui pantaloni e completata da un cilindro, anch'esso nero, che in paese solo il medico calzava.
La schiena appoggiava ad un masso di granito rugoso, del tipo usato in paese per le lapidi delle tombe, mentre le gambe stavano perfettamente parallele fra esse e in una rigidezza anormale.
Giovanni notò anche lo sconcertante ordine del vestito come se il viaggio, sino al monte Avaro, l'uomo l'avesse percorso in carrozza e non a dorso di mulo o a piedi, seguendo la mulattiera.
Il vecchio avaro giunse poco distante dal signore in nero e insistendo nel suo attento esame, notò: gli atti calmi e malinconici di quel personaggio erano particolarmente assurdi.
L'uomo estrasse da una tasca delle borse vuote e le riempì col fango del sentiero.
Questi gesti insensati accrebbero la curiosità di Giovanni mentre, d'altra parte, il forestiero era troppo attento alla sua "pazzesca attività" per accorgersi dell'avvicinarsi del vecchio.
Lo strano individuo, appena Giovanni gli fu accanto, sollevò il capo e scoprì i denti, bianchi e precisi, dentro un volto dalla pelle tesa con le guance molto magre.
L'essere iniziò il suo approccio con un sorriso tetro, da teschio, nel suo volto scuro e terminante in un pizzetto nerissimo.
L'anima di Giovanni intuì la presenza di qualcosa di non umano e di malvagio.
Il fascino, che queste forze hanno sull'uomo, si misura dal piacere sottile che riescono a far assaporare alle loro vittime.
-Ci incontrammo finalmente!- Disse il forestiero, alla maniera delle vecchie conoscenze. - Da anni desidero un dialogo chiaro con te, vecchio amico mio! Noi due abbiamo condotto molti affari assieme, che ci hanno dato buoni risultati...-
Lo interruppe Giovanni: -Io non l'ho mai visto e credo di non aver il piacere di sapere chi sia!-
-Mio buon vecchio! -Rincalzò il losco personaggio. -Non fare l'ipocrita con me, che non serve a nulla. Io so tutto di te e di ogni angolo del tuo animo, avendoti io stesso suggerito le iniziative più fruttuose. Inoltre l'intero paese sospetta che noi due siamo in combutta!-
Giovanni, convinto di aver a che fare con un commerciante di città, tentò di individuare la sua identità e per non perdere tempo, gli propose un affare: -Che genere di faccende può avere in comune un povero montanaro con un ricco signore, così ben vestito? Volete forse acquistare dei terreni? In tal caso io sarei disposto a contrattare per i prati, floridi e grassi, che sovrastano la chiesetta di San Giovanni.-
Il forestiero gli rispose: -Ma mio vecchio avaro, per chi mi hai preso? Vorresti vendermi le terre più aride e sassose delle tue proprietà? Non sai che i demoni non comprano terre, ma anime?-
Con estrema naturalezza, come si trattasse delle faccende più banali, usò quelle parole tremende e senza tradire la sua espressione di burla, proseguì:-L'oro, mi hanno detto alcuni tuoi amici che ora sono miei clienti per l'eternità, è l'ideale da te preferito! Venderesti tua madre, come in realtà facesti, per pochi grani di questo metallo. Io sono un mercante, un onesto uomo d'affari e vendo merce buona in cambio di anime dannate!-
Si tolse dalla tasca una borsa, nella quale aveva inserito in precedenza fango e la lanciò ai piedi di Giovanni: il sacchetto di iuta si ruppe con l'impatto e provocò l'uscita del suo contenuto, luccicante e giallo.
Il Demonio trionfante, sottolineò: -Sono onesto e generoso, dono
le mie ricchezze a chi mi è simpatico! Ti sei meritato questo..... prendi! E' tutto tuo!-
Giovanni si abbassò, con gesti meccanici e calmi, raccolse l'oro e lo strinse forte.
Il Demonio continuò nel suo intento, con l'insistenza di un cacciatore che vede la preda avvicinarsi alla trappola: Stringi e mordi, è oro buono! Io dono solo oggetti di qualità!-
Il tentatore, in piedi di fronte a lui, gli sussurrò, con quel suo tono triste che penetra le menti: -Amico mio! Non credere che io sia interessato e voglia circuirti!-
Nel frattempo il Demonio si mostrò più bonario: con le mani aperte e le palme rivolte al cielo, come i bambini in cerca di dolci.
Giovanni sorrise, le labbra socchiuse e le guance rilassate, come avesse deposto per un attimo il suo carattere acre e il suo timore per gli estranei.
L'avaro non apriva mai il suo cuore agli amici e per un po' d'oro lo stava regalando al peggiore dei nemici: -L'anima mia è più dura di questo ceppo rinsecchito e il timore, come la gioia, non li conosco da anni! La chiesa non la frequento, perché non mi porta guadagno! Non prego Dio da quando mi uccise dieci mucche, durante la bufera di Natale, tre anni fa.
Cosa potresti ottenere da me che non possiedi già?-
Il Demonio, alle spalle della sua vittima, bisbigliò: -Io, dalle vecchie volpi del tuo pelo, non posso chiedere quello che mi consegnarono da tempo! Ma desidero ricompensarle di tutti i torti, che i disonesti loro simili le hanno costretto a subire! Amico mio, devi ammettere che noi signori dell'Inferno, non siamo così cattivi come ci descrivono!-
La voce del Demonio si fece sempre più fievole e si estinse in un soffio.
Giovanni, incurante della sparizione del forestiero, riprese la sua strada: confuso e stordito, impettito e con il capo rigido.
Non si pose alcuna domanda sull'evento.
Sulla collina, da dove si iniziava a vedere le distese delle sue proprietà, una raffica di vento, brusca ed improvvisa, lo investì.
Da direzioni diverse presero corpo tre immagini, avanzando velocissime, identiche fra loro e simili a quella del Demonio visto in precedenza.
Questa volta era diviso in tre persone, sotto la forma dall'aria che si condensa in mulinelli e assediò la vittima con i suoi trucchi.
Sempre con movenze da marionetta e con la voce flebile, come quella di un violino, riprese la sua tentazione: -So benissimo che tu non sei stupido! -Disse la prima figura diabolica di fronte all'avaro, sfuocata come fosse vista attraverso il fumo e il calore di un fuoco.- Non ti fai truffare dal primo venuto, ma la tua anima io la sto per avere senza nulla in cambio!-
Proseguì il Demonio di sinistra: -E' un favore quello che io voglio farti e non una truffa; l'anima è importante per voi
cristiani! Poi la consegnate a noi, senza alcun ricavo, alla fine
della vita!-
Il Demonio di destra rialzò il tono, sorridendo con bonarietà: -Non voglio convincerti che l'Inferno è bello, perché io stesso ammetto che è orrendo, anche se con queste favole alcuni miei fratelli sono riusciti ad ottenere le anime di certi poveri illusi!-
Le tre entità, contemporaneamente, dissero decise:- Ammetto che
l'Inferno sia una voragine di dolore, ma tu sai che non mento: non illuderti che il Paradiso sia migliore!-
Nel vecchio un brusco impulso di pausa, rapido e non controllabile, attraversò tutto il corpo, tanto intenso da costringerlo a voltarsi per difendersi le spalle.
Appena concluso il giro su se stesso gli apparvero, improvvisamente e vicinissimi, due occhi nerissimi e un naso diritto, impedendogli ogni movimento.
Le labbra di Satana, sottili e di un rosso smorto, si mossero sicure e ironiche: -La felicità, che Dio vi promette, è solo una favola ma, in realtà, solo l'inferno esiste, in Cielo e in Terra. Come potrebbe, se Lui fosse veramente amore, lasciarvi soffrire in vita e scacciarvi all'Inferno solo perché l'avete disobbedito? Prega me! Io non prometto, ma esaudisco subito! Non ti regalo paradisi, ma felicità sulla terra!-
Giovanni desiderava una cosa sola, che gli rodeva il fegato e finalmente l'occasione si presentò: non poté non approfittarne: -Infido Satana, parli e mi confondi come i cittadini! Mostrami la tua capacità nel ripulire, da tutte le pietre, i miei prati e trasformarli nei pascoli migliori della valle! La mia anima l'avrai quando in una sola notte, dall'Angelus all'Ave Maria, tu mi concederai questo favore!-
Il Diavolo cambiò espressione, non nascondendo la gioia e si diresse verso il bosco, sfiorando il prato come un panno spinto dalla brezza.
Si estinse allo stesso modo delle nuvole, che si formano e si disperdono nei vortici tempestosi.
La notte era avanzata, con il suo freddo e il sole illuminava solamente le cime, che delimitavano il Nord del piano.
La baita dei pastori, isolata e posta vicino allo stagno dell'abbeveratoio delle mucche, era una fragile cosa indifesa circondata dai monti diventati scuri.
Quella casupola, sostenuta da quattro muri di sassi e di malta, si reggeva a mala pena con numerose crepe e spazi chiusi da assi in legno.
Anche le lastre di ardesia, che ricoprivano il tetto, erano state squadrate con pochi colpi di mazza e collocate quasi grezze.
Un gruppo di pastori raccoglieva i secchi del latte, appena munto e li trasportava all'interno della baita per fare il formaggio.
L'avaro capì di non essere giunto in tempo per la mungitura della sera ma, all'opposto del suo solito agire, non urlò le sue bestemmie alla vista dei suoi lavoranti. Si limitò a sguardi severi e attenti controlli dell'ordine dei suoi attrezzi.
Nonostante la sua assenza tutto gli sembrò sistemato e il bestiame era già rinchiuso dentro i recinti: semplici steccati in legno senza alcuna protezione, per la bufera e per il gelo.
I suoi uomini, più silenziosi di lui, accelerarono il lavoro e stettero bene attenti a non commettere errori, che avrebbero potuto risvegliare la furia stranamente assopita del loro padrone.
Giovanni entrò nella dispensa dove pane duro e formaggio fresco
prodotto da loro, erano gli unici cibi mangiabili, rifiutando la ormai fredda minestra di patate che solo i pastori riuscivano ad ingoiare.
Spaccò, da una larga pagnotta, un tozzo ampio quanto il suo pungo e tagliò il formaggio con il coltellaccio, utilizzato per tutti gli usi della cucina.
Mise in bocca del pane nero, stracciandolo con i denti e lo masticò lentamente, assorto nei propri pensieri.
Quella sera non fece il suo giro di controllo, né accusò i pastori per ogni piccolo malanno delle bestie: si coricò nel solito angolo, sul pagliericcio di sacco ripieno di fieno umido.
Si ricoprì con la giacca logora, abbandonandosi al sonno.
Lo strano comportamento del loro padrone aveva creato alcuno sospetti a paure.
Qualche pastore temette che una malattia l'avesse colpito, mentre
altri ipotizzarono qualche guaio in affari, che li avrebbe costretti a subire riduzioni nella paga.
Le disgrazie del vecchio burbero erano sfavorevoli anche per i suoi uomini, ma essi, troppo pieni di rancore per lui, quasi ne godevano.
Il garzone di nove anni, figlio di una vedova del paese che era
stata obbligata a mandarlo in montagna ai pascoli, intuiva sempre
l'opinione di tutti.
Senza timore diceva spesso quello che tutti pensavano, ma che non
avevano il coraggio di esprimere: -Allora! Chi erediterà i soldi dello spilorcio? I suoi nipoti, che vivono da signorini in città, o quella sorella, con un piede nella fossa, che abita a Ornica?-
Baldo fece tacere il ragazzo con uno schiaffone, per evitargli ben più sode bastonate da parte del padrone: -Guarda questo piccolo stronzo di capra! Non è in grado di mungere una vacca e già parla come i lazzaroni d'osteria!-
Il garzone, risentito come sanno esserlo quei ragazzi che devono imparare a difendersi molto presto, si tolse dal tiro degli scappellotti di Baldo, sbraitando: -Vecchio caprone incornato! Chi ti insegnò l'educazione e il rispetto per i figli degli altri? Non sono qui, in questa compagnia, per prendere sberle da uno che non sa distinguere una vacca da un toro!-
Concluse con una cantilena e con una mimica offensiva per tutti: un altro schiaffo, ben più intenso, schioccò e il bulletto non ebbe il coraggio di guardare in faccia all'autore della replica, corse lontano da tutti per piangere.
Tutto fu calmo in quella notte: non una sola folata di vento scompigliò l'erba.
Il muggito del bestiame, tenue come in tutte le nottate dal cielo stellato, si fece sentire di rado, regolare come le campane che segnano le ore, in una pace troppo intensa per non essere minacciosa.
Giovanni, accovacciato nella giacca, non ebbe tempo per nessuna meditazione sull'accaduto straordinario della sera e come di solito gli capitava dopo una giornata intensa, cadde in un sonno profondo.
Il suo sogno lo trasportò lontano dal presente, ai tempi della sua infanzia: si ritrovò a camminare nel paese di Cusio, del tutto identico a quello della sua fanciullezza, con tutti i colori e gli odori vivi, portatori di buone emozioni che allora riusciva a gustare.
La vecchia zia, morta da più di cinquant'anni, curva saliva la scalinata della chiesa: andava verso il paese alto, brontolando contro l'età e i malanni.
-Zia Lucia!- Giovanni la richiamò, sorridendo in sogno come quando la incontrava da bambino. -Da quando tempo non ti rivedo! Sono venuto a trovarti, come ti avevo promesso!-
La vecchietta proseguì senza un minimo segno di attenzione: gli passò accanto, continuando il suo borbottio, ora udibile chiaramente: -Poverino! E' morto ad appena nove anni, povero tenero arboscello!-
-Chi sarà morto? -pensò Giovanni, spinto dalla sua sempre viva curiosità. -Forse quel povero garzone che è a servizio da me in montagna?-
Un sentimento insolito lo avvolse e gli riscaldò tutta l'anima.
Le campane suonavano a morto, intonando il loro ritmo triste, espandendo il loro lamento leggero. Giovanni, non ricordando alcuna preghiera, cercò Dio con le sue parole: -Fa' che questo ragazzo sfortunato trovi la pace almeno dopo la morte!-
Si fece il segno della croce velocemente e ripreso dalle sue abituali preoccupazioni, volle scendere verso la piazza in cerca di qualcuno con cui parlare d'affari. Non poté andar oltre che per pochi metri e quel desiderio morboso di sapere, che nei sogni è una forza irresistibile, lo costrinse ad assicurarsi chi fosse il morto.
La zia sostò un istante in cima alla scalinata e proseguì verso sinistra, seguita da Giovanni, sino al prato: un fazzoletto di terra chiuso fra le case del paese alto, dove aveva giocato con i suoi coetanei quando era ancora un ragazzetto.
Tutti i compaesani erano riuniti in quello spazio, incrocio fra stradine senza sbocco e due scalinate: una folla di persone di ogni età bisbigliava sommessamente giudizi di convenienza.
Giovanni si tolse il berretto e lo tenne fra le mani chiuse sul petto, avvicinandosi con prudenza e tentando di riconoscere i volti dei presenti.
Fra quella gente ebbe la sorpresa di rivedere i suoi parenti, di cui solo i più giovani e i bambini erano ancora in vita, vestiti con gli abiti scuri da lutto e il viso atteggiato a tristezza.
Le varie voci, di falso compatimento, si diffusero alla stessa maniera dei cerchi, che si formano nella superficie dell'acqua colpita da un sasso.
Zio Aldo, morto vario tempo prima mentre stava tagliando un albero, disse: -Bravi ragazzi come lui non se ne trovano molti!-
Il cugino Giuseppe, rivale di Giovanni in affari sino al suo ultimo giorno, a stento tratteneva il riso: -Povero amico mio! Morire così giovane è triste; il denaro vale molto, ma non quanto la vita.-
Nascose il sogghigno, non adatto a un funerale, e continuò: -Ora non gli rimane nulla, oltre alla sua anima; che Dio abbia pietà di lui!-
Il brusio, delle persone che aspettavano innanzi alla casa del defunto, si spense pacatamente e tutti compresero che la bara veniva portata fuori dall'abitazione.
La casa era quella in cui Giovanni aveva trascorso l'infanzia: la madre velata e i suoi fratellini piangenti indossavano il lutto dei parenti prossimi.
La bara nera, inadatta ad un ragazzo di nove anni, uscì dalla stretta porta, trasportata da quattro frati che stavano recitando le litanie.
Superata la folla si fermarono accanto a Giovanni e guardandolo dall'ombra dei cappucci, posero la cassa ai suoi piedi.
L'atto fu compiuto con estrema prudenza, tutte le braccia agirono coordinate da una sola volontà e il movimento di discesa ricordò la caduta di una foglia morta.
Uno dei monaci si chinò sopra il feretro, sollevò il coperchio, guardando diritto negli occhi di Giovanni.
I malinconici gesti del religioso, quasi volesse aumentare l'interesse di Giovanni alla scoperta del defunto, si susseguirono con ritmo lento da funzione funebre.
Quel morto, che il paese commemorava con tanta ipocrisia, era lo stesso Giovanni, nella figura attuale di vecchio, nella lignea rigidità funerea in cui la morte riduce tutti.
Il vecchio avaro urlò dal terrore e fuggì, con tutto il vigore che aveva posseduto da giovane, verso i prati che sovrastano il paese, chiari e primaverili: corse per la disperazione, mentre qualcosa in lui era mutato.
Le sue gambe e le sue braccia ritornarono giovani, diventando quelle di un bambino: il suo corpo si liberò del bozzolo alla maniera dei bachi da seta, perdendo la sua vecchia figura per riprendere l'aspetto di quando aveva avuto nove anni.
Rivisse, nel sogno, le stesse emozioni della sua infanzia, stato d'animo che lo inserì nel mondo della natura circostante.
La paura si trasformò in entusiasmo e tutto, attorno a lui, risultò diverso, nonostante avesse visto quel paesaggio migliaia di volte: fiori, alberi e cielo erano divenuti nuovi improvvisamente.
Percorse un sentiero piano e giunse alla cascatella, che un torrente forma al disopra del lavatoio di Sant'Alberto, e con impeto si gettò in quell'acqua gelida e pura.
Con un brivido di freddo si risvegliò, riportandolo alla sua grigia dimensione, dentro il suo mondo di paure e di rancori.
Da varie ore la vita aveva ripreso il corso del mattino, con i soliti rumori provenienti dall'esterno della baita.
Giovanni si levò dal giaciglio, calzò le scarpe dure e umide, con il pensiero diviso fra il sogno e la realtà.
Qualcosa in lui si era rigenerato, una rivoluzione era iniziata nel suo animo, il lungo sonno gli aveva rievocato momenti del suo passato.
Emozioni e paure, scordate da troppi anni, risalivano dal fondo della sua intimità, con quella irruenza che talvolta hanno i ricordi creduti sepolti dentro di noi.
Il vecchio avaro non volle toccare cibo: si rimise subito la giacca e il cappello per uscire all'aria aperta, lontano dagli odori di cui era impregnata la catapecchia.
Fuori l'attività proseguiva intensa e i suoi pastori, anche per la presenza del padrone, stavano lavorando con più energia dei giorni in cui si doveva migrare a valle.
Il vecchio ancora una volta, meravigliandoli come la sera precedente, non si soffermò a dare ordini: prese la direzione della cappelletta della Madonna, disinteressato al carico di formaggio da portare a valle.
Tutta la serata precedente i pastori l'avevano trascorsa per i preparativi del trasporto del formaggio che avveniva, normalmente, nelle ultime settimane dell'alpeggio.
In quell'anno l'abbondanza del prodotto esigeva un primo viaggio in anticipo.
Questo trasferimento era sempre stato seguito con estrema attenzione dal vecchio avaro che, con la sua esperienza, conosceva la delicatezza della merce e i rischi di guasti, evitabili solo usando estrema prudenza.
L'operazione doveva avvenire con la luna nuova, seguendo la vecchia usanza che tutti i contadini rispettavano: principio presente in tutti i lavori di raccolta, o di taglio, nel mondo agricolo.
Quello doveva essere il giorno buono: il tempo non dava preoccupanti presagi.
Per il timore ossessivo di sbagliare, nessuno credette opportuno prendersi la responsabilità di dare l'ordine che fossero caricati i muli, già barbati, scalcianti e impazienti come non lo erano mai stati.
Giovanni andò alla cappelletta e con un gesto che non aveva ripetuto più da quando era bambino, portò alla Madonna dei piccoli fiori: gli ultimi della stagione, che spuntavano dall'erba rasata e li offrì delicatamente.
Depose quel mazzolino variopinto, aprendo la mano in un atto dolce, mentre tratteneva dentro il petto un singhiozzo.
Il suo animo si sciolse e pregò: -Madonna Santissima! Ti offro questi fiori, non avendo un cuore da darti, ma ti chiedo di non farmi cadere in preda al Diavolo! Se ciò non fosse più possibile lascia che io possa riparare almeno a qualche torto, causato dalla mia avidità per la ricchezza!-
Così dicendo fece il segno della croce, poi si lasciò scivolare in ginocchio, a capo chino.
Trascorse così tutto il resto della giornata: guardava il paesaggio sereno dai dossi verdi e dalle curve armoniose della valle, che proseguono sino a infrangersi contro il ripido fianco Nord, sovrastante i suoi pascoli.
Le nuvole scure da bufera si addensarono nel tardo pomeriggio e si condensavano come spettri, che si preparano per la notte.
La nebbia ben presto arrivò a coprire il cielo limpido e il Sole luminoso.
Gli elementi incontrollabili iniziarono la loro avanzata, discendendo dal versante Nord verso i pascoli, e arrestandosi oltre le vecchie miniere di ferro, che secondo la gente erano le tane delle anime dannate e dei demoni.
Quelle nuvole così nere che nemmeno i più vecchi pastori ne ricordavano di uguali, rimasero minacciose e turbolente, con un continuo turbinio di venti che le agitavano come vele in una burrasca.
Giovanni, vedendo che Satana manteneva le sue promesse, era rassegnato al suo destino, si rifece il segno della croce e con un filo di speranza chiese alla Madonna aiuto: -Santa Madre! Non lasciarmi in balia del volere dell'Inferno!-
Si accusò delle proprie colpe e in particolare, della sua assurda avarizia, che gli aveva causata l'ostilità dell'intero paese: -Tutti mi sono nemici! Nessuno mi ama, dietro di me lascio una scia di indifferenza e di antipatia!-
Quel giorno, pur così denso di avvenimenti, gli sembrò il più breve della sua vita.
L'ordine di carico del formaggio si fece attendere e gli uomini si dedicarono ad altre piccole faccende.
Verso sera i suoi lavoranti cominciarono a preoccuparsi per il maltempo, abbandonando l'idea di poter scendere in giornata in paese.
Tutto il bestiame fu raggruppato nei recinti, ben chiusi, per impedire che qualche animale fuggisse impaurito per la tempesta incombente.
Nessuno si sottrasse alla continua e frenetica attività di copertura, di chiusura e di fissaggio.
Giovanni, indifferente a tutto, ritornò alla baita e si pose sul pagliericcio: seduto con le gambe penzoloni, le mani strette sul bordo e il corpo dondolante avanti e indietro.
I lavori continuavano e tutto andava per il meglio, anche senza i puntiglioso controlli del vecchio.
La notte calò inesorabile e pesante, rendendo l'aria fredda.
Tutti avvertirono l'angoscia istintiva del pericolo.
I vecchi pastori, esperti nell'individuare la presenza malefica e nella lettura dei simboli di prossima disgrazia, si fecero il segno della croce.
Recitarono brevi orazioni; rimproverarono i più giovani per la loro noncuranza e li invitarono a far lo stesso, poi ordinarono di chiudersi al sicuro.
Il vecchio avaro, isolato sul suo pagliericcio, sembrò che avesse perso il lume della ragione, agitandosi come una bestia in gabbia.
Gli uomini, seduti sugli sgabelli o sui tronchi, si prepararono la cena al fuoco del camino, nell'unico locale della baita.
Chiacchieravano piano, timorosi ormai solo del finimondo che si stava scatenando fuori, senza più bestemmiare, usando le parole più caute che conoscevano: -Questo benedetto fuoco oggi non si
vuol accendere! -Brontolò per tutti Michele. -Il vento impedisce un buon tiraggio nel camino. E' la prima volta, da quando sono nato, che vedo un tempaccio così!-
Seduto al suo sgabello, nel posto di riguardo vicino al fuoco, Gabriele, il più vecchio fra i pastori, non parlava.
Egli saliva in montagna con la bella stagione: per la sua tarda età era addetto ai mestieri meno pesanti ma, sfruttando la sua esperienza, diagnosticava le malattie degli animali e degli uomini.
Era rispettato anche dal vecchio avaro, che non osava mai dire nulla contro di lui, timoroso di alienarsi la simpatia dei suoi dipendenti.
Quella sera l'espressione del vecchio erborista era cupa, indizio delle sue preoccupazioni.
Gli uomini attendevano con ansia qualche spiegazione e finalmente: -Che Dio abbia pietà di noi e di colui che, tra noi, è causa dello scatenarsi dello Spirito del male!- esclamò in tono energico Gabriele, in modo da essere udito anche da Giovanni.- Le potenze della notte escono solo se qualcuno le chiama. Che Dio abbia pietà del colpevole!-
Le campane suonarono l'Angelus, segnando la fine delle ore del giorno e Satana giunse per compiere il suo lavoro: lui stesso era il cuore della tempesta, vento fra il vento, enorme figura nera di nubi dalla forma indefinita.
La sua forma era evanescente, si mise a tormentare la montagna, con grandine e colpi di vento impetuosi: strappò fiori ed erba, agitandoli continuamente nell'aria.
Il suo mantello strisciò sul suolo e rastrellò le rocce più piccole.
Le sue mani strappavano le pietre di maggior peso, rendendole prima rosse e poi viola per il colore, gettandole con una parabola altissima sui prati puliti, appena sopra il monte.
Quelle strane stelle cadenti sibilavano con un fischio acutissimo: facevano tacere i muggiti del bestiame terrorizzato.
Bruciavano nel cielo, segnandolo con code di fuoco azzurro e morendo sul terreno dopo un piccolo scoppio.
Gli arti posteriori del mostro, nodosi e verdi come quelli dei ramarri, razzolavano sul terreno, raccogliendo fra le unghie curve e appuntite anche il materiale roccioso più piccolo.
In breve, con le zampe inferiori, la lunga muscolosa coda e il mantello, riuscì ad ammassare un mucchio di sassi di tutte le forme, alto quasi quanto lui.
Si tolse il vastissimo mantello, snodandolo dal collo gonfio per il gozzo, e lo gettò sul mucchio di pietrame, per poi piegarsi accovacciato e coprire i ciottoli con il suo vasto corpo.
Riprese gli angoli più distanti del manto nero e li tirò a sé, per farne un sacco da caricarsi poi sulle spalle.
Velocemente uscì dai terreni del vecchio avaro, scaricando il suo enorme fardello nella terra di nessuno e quindi nel pascolo dei più poveri.
Proseguì tutta la notte con identica frenesia, sbuffando fumo e bestemmiando tuoni.
Il chiarore dell'alba sbucò e Satana ne gioì: non gli rimase che pulire il bordo Sud del piano, il lato posto sopra il paese, e tutto si poteva dire terminato.
Una roccia dall'altezza di due uomini si staccò, con strana leggerezza, dalla cresta del monte posto a Nord, al di sopra dei piani: precipitò senza rotolare e si conficcò nel mezzo del prato.
Satana aveva appena concluso il suo faticoso lavoro quando vide
che una volontà, più potente della sua, gli si era posta contro: si infuriò, ringhiando e facendo scempio del terreno sotto di lui.
Raccolse le sue forze, che si erano indebolite con l'avvicinarsi del Sole e in pochi balzi, si gettò sul macigno furente per l'ira.
Tentò di muoverlo, puntando sulle sue zampe che sprofondarono nel suolo, spingendolo e tirandolo in tutti i modi possibili ed in ogni direzione: non riuscì ad appoggiarsi ad alcun sostegno e scivolò nel fango.
Le sue zampe tentarono di stritolare la cima della roccia, dandole tanto calore da fondere l'amianto: essa non cedette e il calore non la scaldò.
Le fiamme verdi, che uscirono dalle narici di Satana, si spensero dopo pochi istanti.
Le campane del paese suonarono i rintocchi dell'Ave Maria, mettendo fine al regno delle tenebre e la luce del sole avanzò contro la belva infernale: non le servirono bestemmie o maledizioni, era stata vinta.
La certezza della vittoria si trasformò nell'umiliazione della sconfitta.
Fuggì il chiarore del giorno, scolorito ed impotente, cercando rifugio nelle viscere della montagna, dove la luce non riesce mai ad entrare.
Col Diavolo sparirono le nubi nere e l'orizzonte ritornò pulito.
Il primo a levarsi e a uscire dalla baita fu Giovanni, interessato al risultato finale: ebbe l'orribile visione di un campo di battaglia.
Quasi tutta l'erba era stata sradicata e il suo monte assomigliava ad una fangosa valle dell'Inferno.
Enormi impronte di rettile gigante si notavano disseminate in ogni angolo del piano, ma non era rimasto un solo sasso.
Con l'ansia della disperazione corse fuori, cercando qualche pietra dimenticata che avrebbe annullato il patto, ma l'opera era completa.
Piangente vide nel centro del prato e ben ferma, la roccia che il Diavolo non era riuscito a smuovere.
Si diresse verso quella, quasi non credendo al miracolo e cadde con le ginocchia nel fango: abbracciò il masso, strumento di Dio contro il Maligno.
Commosso, felice, riconoscente e incapace di parlare, si sfogò in un pianto senza ritegno.
Si ricordò dell'oro del Diavolo e se ne volle liberare, cercandolo nella sua tasca, ma ormai la borsa conteneva solo polvere.
La natura intera respirava col ritorno del bel tempo: gli arbusti lucenti rialzavano i rami verso il cielo luminoso, in quell'azzurro profondo che fa scordare ogni tristezza.
I compaesani di Giovanni, anche se egli non disse mai nulla, seppero questa sua disavventura attraverso la loro capacità di interpretare i segni della natura.
Se la raccontarono, di padre in figlio, sino ai giorni nostri. La roccia abbandonata dal Diavolo, proprio per indicare la sconfitta del male, fu denominata "le corna del Diavolo".
Anche al monte fu mutato il nome in "Avaro", a ricordo di questa vicenda e Giovanni, convertito, perdette il suo denigrante appellativo: divenne il benefattore dei poveri del paese.

racconto di Arduino Rossi