LA
LEGGENDA DEL MONTE AVARO
Lo
stretto e ripido sentiero, che dal paese conduceva ai piani del monte
Avaro, penetrava la fitta boscaglia dei castagni e dei robusti faggi
dalla corteccia bruna.
I
grossi ciottoli e le ampie buche, causate dal rapido scorrere delle
acque durante i forti temporali dell'ultima settimana d'agosto,
dimostravano la scarsa attenzione dei montanari per quella via.
Nessuno
si era preoccupato di riassettare e ripulire dalle erbacce quel
viottolo fuori uso e la sua sorte, tipica di tutte le vie di montagna
abbandonate, era quella di trasformarsi in torrente alluvionale:
asciutto tutto l'anno e percorso da acque violente solo durante i
forti temporali estivi o allo sciogliersi delle nevi.
Il
vecchio Giovanni, camminando con un'energia insolita per la sua età,
borbottò contro il mercante di formaggio della città che, a sentir
lui, anche quell'anno era riuscito a far fortuna sul prezzo della sua
merce: -Maledetto cittadino, con i tuoi discorsi mi confondi e poi
ottieni quello che vuoi! Il mio formaggio tu lo vendi il doppio o il
triplo di quanto me lo paghi!-
Parlò
come avesse di fronte il suo nemico: con un gesto istintivo agguantò
il suo berretto grigio, tanto malandato che nessuno sapeva quando
l'avesse posto sul capo per la prima volta, e lo torse, come fosse
stato il collo del suo furbo acquirente.
L'alta
erba secca, sul bordo del sentiero, con il suo colore giallo spento,
che è il primo indizio della fine dell'estate, si illuminò al sole
del tardo pomeriggio che, penetrando di sbieco, mostrò l'interno
nascosto del bosco.
I
cespugli verde scuro degli agrifogli, con le loro foglie lucide,
riflettevano sfumature blu, gialle.
Le
bianche campanule risaltavano tra il rosso dei ciclamini e osavano
comparire fra il groviglio confuso e aspro degli arbusti.
Uno
strato di fogliame, che sarebbe dovuto servire come letto per il
bestiame, si era trasformato, mischiandosi al terreno negli spazi
liberi dalla vegetazione, in humus color terracotta.
In
quell'area le frane e le slavine avevano scavato una scarpata nel
terriccio, causando la rovina di parte del viottolo.
Giovanni
conosceva bene quella zona pericolosa e, per evitarla, era solito
addentrarsi nella macchia poco prima del viscido terreno franoso: si
aggrappava a qualche solido ramo e spingeva il suo nodoso bastone
sotto qualche sasso, aggirando con prudenza
la
difficoltà.
Quel
giorno, per il suo risentimento verso il mercante, non si ricordò
della deviazione e andò oltre, sino alla zona rovinata.
La
fretta gli bruciava l'anima.
In
preda alla paura angosciosa che tutti lo volessero derubare, non
perdette tempo, preferendo superare direttamente il tratto di
sentiero pericolante.
Gridò
con quella voce che gli usciva, forte e cattiva, solo nei momenti di
furia: -Satanasso! Non ho tempo da gettare, ho i vaccai da
controllare! Quei ladri, se non mi vedono, mi derubano di metà del
latte della mungitura serale!-
A
guardare il suo corpo, magro e piccolo con le spalle deformate
dall'artrite, si sarebbe detto che non avrebbe mai potuto
oltrepassare quel passaggio difficile.
Invece
quel fisico minuto era fornito di una forza innaturale, che non
l'avrebbe fatto sfigurare in competizione con gli uomini più robusti
del paese.
Si
raccontava che fosse stato il Diavolo, suo amico personale, a
fornirgli tutta l'energia che si teneva in corpo.
Pulì
il fondo delle scarpacce, chiodate ormai chissà quante volte dal
calzolaio del paese e pose con molta sicurezza i piedi su quel che
era rimasto del sentiero: uno stretto cornicione poco rassicurante.
I
primi passi non gli dettero alcuna difficoltà o incertezza.
La
sua baldanza fu la causa di un piccolo slittamento del piede
sinistro.
Si
ristabilì, dopo aver bene accentuato la stretta ai sostegni delle
mani e controllò con calma la suola della scarpa scivolosa,
ripulendola contro un sasso dal fango argilloso.
-Diavolo
dell'Inferno!- Imprecò, più per smaltire la paura dello scampato
pericolo che per rabbia.
Le
sue decisioni non conoscevano ripensamenti e lui non ritornava
mai
sui suoi passi.
-Che
il Diavolo si prenda chi ha costruito questo sentiero!-
Ricominciò
con le sue maledizioni, che non risparmiavano niente e nessuno.
Continuò
ad avanzare, lentamente e cautamente, con un po' di timore.
La
mano destra tastò alcuni massi immersi in una vegetazione spinosa
poi, con le dita graffiate dai rovi, cercò senza fretta qualcosa di
stabile.
Alcuni
sassi precipitarono nella scarpata, fra il frastuono prodotto dallo
spezzarsi di rami secchi.
Finalmente
riuscì ad agguantare una robusta radice, avanzando mezzo metro con
uno slancio ardito paragonabile a quello di una delle sue capre.
Si
trovò al centro della frana e vide che, nell'ultimo tratto, il
cornicione si assottigliava ancora: ormai non era capace di
ripiegare, perché il rischio di una caduta era identico sia se
avesse proseguito o sia se fosse tornato indietro.
La
forza rabbiosa delle braccia gli fecero rinnovare, sorprendentemente,
la stretta delle dita sugli appigli con volontà autonoma; lui stesso
si stupì del suo attaccamento alla vita.
La
calma aggressiva si trasformò in paura ansiosa: più volte, come un
animale furioso, cercò un nuovo appiglio fra la vegetazione e i suoi
atti si ripeterono rapidissimi.
Con
la mano arraffò e strappò tutto ciò che trovò tra i rovi.
Una
radice molto grossa, di cui non controllò la consistenza, gli parve
la salvezza e si gettò su essa.
I
piedi prima penzolarono poi, veloci come quelli di un ragazzo,
tentarono disperatamente di trovare qualcosa di stabile su cui
posarsi.
Le
mani sentirono il peso eccessivo di quello sforzo e allentarono la
morsa.
Con
un piede colpì un pietrone molto solido, nella furia della ricerca
di un appoggio, su cui pose un ginocchio e poi l'altro, barcollando e
trascinandosi ad una posizione sicura.
Volle
riprendere fiato e il controllo di se stesso, sostando per poco:
respirò nel modo affannoso dei cani da pastore che, dopo aver
rincorso il bestiame, si arrestano un istante e poi ripartono.
Mancava
solo un metro parzialmente esposto al burrone ma, grazie alla
ritrovata calma, l'uomo lo percorse con tranquillità.
Uscito
dal pericolo cedette alla stanchezza e si lasciò cadere su un tronco
umido, per ritrovare la lucidità dopo il grosso spavento.
La
paura, in quell'uomo coriaceo, non poteva abitare che pochi istanti:
il suo pensiero riprese il continuo calcolo delle sue proprietà, dei
furti e degli affari.
La
sua avarizia era giunta a bestemmiare l'opera del buon Dio che,
lasciando coperto di massi e di pietrame di ogni misura i piani del
monte Avaro, non aveva completato la sua opera.
Era
per lui un dolore vedere che tutto quel pascolo non poteva essere
utilizzato completamente.
Grazie
alla forma conca dei piani del monte, che tratteneva l'acqua, l'erba
cresceva abbondante e verde, più che sufficiente al bestiame del
vecchio, ma a lui non bastava.
Mai
si sarebbe considerato soddisfatto se, prima di morire, non avesse
trasformato i piani in prati puliti: -Io ho tutte quelle pietre sulle
mie terre, invece nei pascoli meno floridi e in pendenza, non c'è un
sasso! Sono così ordinati da essere più morbidi dei tappeti della
chiesa: quelli che si usano sole nelle cerimonie per la patrona Santa
Margherita!-
Si
levò, nonostante i dolori e gli scricchiolii del suo corpo e
riprese la salita.
Più
si andava in alto e più il bosco si diradava, divenivano più fitte
le piante di lamponi dai frutti abbondanti.
Dei
fiori, simili a margherite gialle, drizzavano le corolle verso il
debole sole serale, con i petali ampi e appariscenti, quasi
orgogliosi.
In
paese la vita del giorno lavorativo dette gli ultimi segni e i
contadini tornarono dai campi.
Le
campane suonarono l'Angelus, che segnava il crepuscolo, con
quel
suono morbido che solo la distanza può dare, rimbalzando e
smorzando
l'acuto dei bronzi sui prati e contro i boschi.
Quasi
sul finale della salita, lungo il fianco del monte, il suono delle
campane si udì come un richiamo dolce e lontano, che la parte intima
del vecchio recepì come una malinconica preghiera per la salvezza
della sua anima.
Su
un dosso del monte Avaro sembrava che il sole non volesse tramontare
e uno strano individuo stazionava placidamente, immobile e
impassibile.
Il
vecchio Giovanni si fermò un istante per capire chi fosse,
credendolo uno dei suoi montanini, ma, non riconoscendolo, disse a se
stesso a voce alta: -Nessuno, fra i miei uomini, veste abiti così
scuri! Quello è sicuramente un forestiero!-
Giovanni
provava diffidenza per tutte le persone ma, per quelli fuori paese,
nutriva una certa ostilità.
Si
diresse verso l'intruso per guardare bene in viso chi si permettesse
di calpestare la sua erba.
Il
vecchio, mentre si stava avvicinando, indagò altri particolari nel
volto e nell'animo del forestiero, accrescendo il suo disagio.
L'abito
dell'intruso fu l'argomento di maggior interesse: era una nera
palandrana che si sdoppiava sulla coda, avvolta con cura sui
pantaloni e completata da un cilindro, anch'esso nero, che in paese
solo il medico calzava.
La
schiena appoggiava ad un masso di granito rugoso, del tipo usato in
paese per le lapidi delle tombe, mentre le gambe stavano
perfettamente parallele fra esse e in una rigidezza anormale.
Giovanni
notò anche lo sconcertante ordine del vestito come se il viaggio,
sino al monte Avaro, l'uomo l'avesse percorso in carrozza e non a
dorso di mulo o a piedi, seguendo la mulattiera.
Il
vecchio avaro giunse poco distante dal signore in nero e insistendo
nel suo attento esame, notò: gli atti calmi e malinconici di quel
personaggio erano particolarmente assurdi.
L'uomo
estrasse da una tasca delle borse vuote e le riempì col fango del
sentiero.
Questi
gesti insensati accrebbero la curiosità di Giovanni mentre, d'altra
parte, il forestiero era troppo attento alla sua "pazzesca
attività" per accorgersi dell'avvicinarsi del vecchio.
Lo
strano individuo, appena Giovanni gli fu accanto, sollevò il capo e
scoprì i denti, bianchi e precisi, dentro un volto dalla pelle tesa
con le guance molto magre.
L'essere
iniziò il suo approccio con un sorriso tetro, da teschio, nel suo
volto scuro e terminante in un pizzetto nerissimo.
L'anima
di Giovanni intuì la presenza di qualcosa di non umano e di
malvagio.
Il
fascino, che queste forze hanno sull'uomo, si misura dal piacere
sottile che riescono a far assaporare alle loro vittime.
-Ci
incontrammo finalmente!- Disse il forestiero, alla maniera delle
vecchie conoscenze. - Da anni desidero un dialogo chiaro con te,
vecchio amico mio! Noi due abbiamo condotto molti affari assieme, che
ci hanno dato buoni risultati...-
Lo
interruppe Giovanni: -Io non l'ho mai visto e credo di non aver il
piacere di sapere chi sia!-
-Mio
buon vecchio! -Rincalzò il losco personaggio. -Non fare l'ipocrita
con me, che non serve a nulla. Io so tutto di te e di ogni angolo del
tuo animo, avendoti io stesso suggerito le iniziative più fruttuose.
Inoltre l'intero paese sospetta che noi due siamo in combutta!-
Giovanni,
convinto di aver a che fare con un commerciante di città, tentò di
individuare la sua identità e per non perdere tempo, gli propose un
affare: -Che genere di faccende può avere in comune un povero
montanaro con un ricco signore, così ben vestito? Volete forse
acquistare dei terreni? In tal caso io sarei disposto a contrattare
per i prati, floridi e grassi, che sovrastano la chiesetta di San
Giovanni.-
Il
forestiero gli rispose: -Ma mio vecchio avaro, per chi mi hai preso?
Vorresti vendermi le terre più aride e sassose delle tue proprietà?
Non sai che i demoni non comprano terre, ma anime?-
Con
estrema naturalezza, come si trattasse delle faccende più banali,
usò quelle parole tremende e senza tradire la sua espressione di
burla, proseguì:-L'oro, mi hanno detto alcuni tuoi amici che ora
sono miei clienti per l'eternità, è l'ideale da te preferito!
Venderesti tua madre, come in realtà facesti, per pochi grani di
questo metallo. Io sono un mercante, un onesto uomo d'affari e vendo
merce buona in cambio di anime dannate!-
Si
tolse dalla tasca una borsa, nella quale aveva inserito in precedenza
fango e la lanciò ai piedi di Giovanni: il sacchetto di iuta si
ruppe con l'impatto e provocò l'uscita del suo contenuto, luccicante
e giallo.
Il
Demonio trionfante, sottolineò: -Sono onesto e generoso, dono
le
mie ricchezze a chi mi è simpatico! Ti sei meritato questo.....
prendi! E' tutto tuo!-
Giovanni
si abbassò, con gesti meccanici e calmi, raccolse l'oro e lo strinse
forte.
Il
Demonio continuò nel suo intento, con l'insistenza di un cacciatore
che vede la preda avvicinarsi alla trappola: Stringi e mordi, è oro
buono! Io dono solo oggetti di qualità!-
Il
tentatore, in piedi di fronte a lui, gli sussurrò, con quel suo tono
triste che penetra le menti: -Amico mio! Non credere che io sia
interessato e voglia circuirti!-
Nel
frattempo il Demonio si mostrò più bonario: con le mani aperte e le
palme rivolte al cielo, come i bambini in cerca di dolci.
Giovanni
sorrise, le labbra socchiuse e le guance rilassate, come avesse
deposto per un attimo il suo carattere acre e il suo timore per gli
estranei.
L'avaro
non apriva mai il suo cuore agli amici e per un po' d'oro lo stava
regalando al peggiore dei nemici: -L'anima mia è più dura di questo
ceppo rinsecchito e il timore, come la gioia, non li conosco da anni!
La chiesa non la frequento, perché non mi porta guadagno! Non prego
Dio da quando mi uccise dieci mucche, durante la bufera di Natale,
tre anni fa.
Cosa
potresti ottenere da me che non possiedi già?-
Il
Demonio, alle spalle della sua vittima, bisbigliò: -Io, dalle
vecchie volpi del tuo pelo, non posso chiedere quello che mi
consegnarono da tempo! Ma desidero ricompensarle di tutti i torti,
che i disonesti loro simili le hanno costretto a subire! Amico mio,
devi ammettere che noi signori dell'Inferno, non siamo così cattivi
come ci descrivono!-
La
voce del Demonio si fece sempre più fievole e si estinse in un
soffio.
Giovanni,
incurante della sparizione del forestiero, riprese la sua strada:
confuso e stordito, impettito e con il capo rigido.
Non
si pose alcuna domanda sull'evento.
Sulla
collina, da dove si iniziava a vedere le distese delle sue proprietà,
una raffica di vento, brusca ed improvvisa, lo investì.
Da
direzioni diverse presero corpo tre immagini, avanzando velocissime,
identiche fra loro e simili a quella del Demonio visto in precedenza.
Questa
volta era diviso in tre persone, sotto la forma dall'aria che si
condensa in mulinelli e assediò la vittima con i suoi trucchi.
Sempre
con movenze da marionetta e con la voce flebile, come quella di un
violino, riprese la sua tentazione: -So benissimo che tu non sei
stupido! -Disse la prima figura diabolica di fronte all'avaro,
sfuocata come fosse vista attraverso il fumo e il calore di un
fuoco.- Non ti fai truffare dal primo venuto, ma la tua anima io la
sto per avere senza nulla in cambio!-
Proseguì
il Demonio di sinistra: -E' un favore quello che io voglio farti e
non una truffa; l'anima è importante per voi
cristiani!
Poi la consegnate a noi, senza alcun ricavo, alla fine
della
vita!-
Il
Demonio di destra rialzò il tono, sorridendo con bonarietà: -Non
voglio convincerti che l'Inferno è bello, perché io stesso ammetto
che è orrendo, anche se con queste favole alcuni miei fratelli sono
riusciti ad ottenere le anime di certi poveri illusi!-
Le
tre entità, contemporaneamente, dissero decise:- Ammetto che
l'Inferno
sia una voragine di dolore, ma tu sai che non mento: non illuderti
che il Paradiso sia migliore!-
Nel
vecchio un brusco impulso di pausa, rapido e non controllabile,
attraversò tutto il corpo, tanto intenso da costringerlo a voltarsi
per difendersi le spalle.
Appena
concluso il giro su se stesso gli apparvero, improvvisamente e
vicinissimi, due occhi nerissimi e un naso diritto, impedendogli ogni
movimento.
Le
labbra di Satana, sottili e di un rosso smorto, si mossero sicure e
ironiche: -La felicità, che Dio vi promette, è solo una favola ma,
in realtà, solo l'inferno esiste, in Cielo e in Terra. Come
potrebbe, se Lui fosse veramente amore, lasciarvi soffrire in vita e
scacciarvi all'Inferno solo perché l'avete disobbedito? Prega me! Io
non prometto, ma esaudisco subito! Non ti regalo paradisi, ma
felicità sulla terra!-
Giovanni
desiderava una cosa sola, che gli rodeva il fegato e finalmente
l'occasione si presentò: non poté non approfittarne: -Infido
Satana, parli e mi confondi come i cittadini! Mostrami la tua
capacità nel ripulire, da tutte le pietre, i miei prati e
trasformarli nei pascoli migliori della valle! La mia anima l'avrai
quando in una sola notte, dall'Angelus all'Ave Maria, tu mi
concederai questo favore!-
Il
Diavolo cambiò espressione, non nascondendo la gioia e si diresse
verso il bosco, sfiorando il prato come un panno spinto dalla brezza.
Si
estinse allo stesso modo delle nuvole, che si formano e si disperdono
nei vortici tempestosi.
La
notte era avanzata, con il suo freddo e il sole illuminava solamente
le cime, che delimitavano il Nord del piano.
La
baita dei pastori, isolata e posta vicino allo stagno
dell'abbeveratoio delle mucche, era una fragile cosa indifesa
circondata dai monti diventati scuri.
Quella
casupola, sostenuta da quattro muri di sassi e di malta, si reggeva a
mala pena con numerose crepe e spazi chiusi da assi in legno.
Anche
le lastre di ardesia, che ricoprivano il tetto, erano state squadrate
con pochi colpi di mazza e collocate quasi grezze.
Un
gruppo di pastori raccoglieva i secchi del latte, appena munto e li
trasportava all'interno della baita per fare il formaggio.
L'avaro
capì di non essere giunto in tempo per la mungitura della sera ma,
all'opposto del suo solito agire, non urlò le sue bestemmie alla
vista dei suoi lavoranti. Si limitò a sguardi severi e attenti
controlli dell'ordine dei suoi attrezzi.
Nonostante
la sua assenza tutto gli sembrò sistemato e il bestiame era già
rinchiuso dentro i recinti: semplici steccati in legno senza alcuna
protezione, per la bufera e per il gelo.
I
suoi uomini, più silenziosi di lui, accelerarono il lavoro e
stettero bene attenti a non commettere errori, che avrebbero potuto
risvegliare la furia stranamente assopita del loro padrone.
Giovanni
entrò nella dispensa dove pane duro e formaggio fresco
prodotto
da loro, erano gli unici cibi mangiabili, rifiutando la ormai fredda
minestra di patate che solo i pastori riuscivano ad ingoiare.
Spaccò,
da una larga pagnotta, un tozzo ampio quanto il suo pungo e tagliò
il formaggio con il coltellaccio, utilizzato per tutti gli usi della
cucina.
Mise
in bocca del pane nero, stracciandolo con i denti e lo masticò
lentamente, assorto nei propri pensieri.
Quella
sera non fece il suo giro di controllo, né accusò i pastori per
ogni piccolo malanno delle bestie: si coricò nel solito angolo, sul
pagliericcio di sacco ripieno di fieno umido.
Si
ricoprì con la giacca logora, abbandonandosi al sonno.
Lo
strano comportamento del loro padrone aveva creato alcuno sospetti a
paure.
Qualche
pastore temette che una malattia l'avesse colpito, mentre
altri
ipotizzarono qualche guaio in affari, che li avrebbe costretti a
subire riduzioni nella paga.
Le
disgrazie del vecchio burbero erano sfavorevoli anche per i suoi
uomini, ma essi, troppo pieni di rancore per lui, quasi ne godevano.
Il
garzone di nove anni, figlio di una vedova del paese che era
stata
obbligata a mandarlo in montagna ai pascoli, intuiva sempre
l'opinione
di tutti.
Senza
timore diceva spesso quello che tutti pensavano, ma che non
avevano
il coraggio di esprimere: -Allora! Chi erediterà i soldi dello
spilorcio? I suoi nipoti, che vivono da signorini in città, o quella
sorella, con un piede nella fossa, che abita a Ornica?-
Baldo
fece tacere il ragazzo con uno schiaffone, per evitargli ben più
sode bastonate da parte del padrone: -Guarda questo piccolo stronzo
di capra! Non è in grado di mungere una vacca e già parla come i
lazzaroni d'osteria!-
Il
garzone, risentito come sanno esserlo quei ragazzi che devono
imparare a difendersi molto presto, si tolse dal tiro degli
scappellotti di Baldo, sbraitando: -Vecchio caprone incornato! Chi ti
insegnò l'educazione e il rispetto per i figli degli altri? Non sono
qui, in questa compagnia, per prendere sberle da uno che non sa
distinguere una vacca da un toro!-
Concluse
con una cantilena e con una mimica offensiva per tutti: un altro
schiaffo, ben più intenso, schioccò e il bulletto non ebbe il
coraggio di guardare in faccia all'autore della replica, corse
lontano da tutti per piangere.
Tutto
fu calmo in quella notte: non una sola folata di vento scompigliò
l'erba.
Il
muggito del bestiame, tenue come in tutte le nottate dal cielo
stellato, si fece sentire di rado, regolare come le campane che
segnano le ore, in una pace troppo intensa per non essere minacciosa.
Giovanni,
accovacciato nella giacca, non ebbe tempo per nessuna meditazione
sull'accaduto straordinario della sera e come di solito gli capitava
dopo una giornata intensa, cadde in un sonno profondo.
Il
suo sogno lo trasportò lontano dal presente, ai tempi della sua
infanzia: si ritrovò a camminare nel paese di Cusio, del tutto
identico a quello della sua fanciullezza, con tutti i colori e gli
odori vivi, portatori di buone emozioni che allora riusciva a
gustare.
La
vecchia zia, morta da più di cinquant'anni, curva saliva la
scalinata della chiesa: andava verso il paese alto, brontolando
contro l'età e i malanni.
-Zia
Lucia!- Giovanni la richiamò, sorridendo in sogno come quando la
incontrava da bambino. -Da quando tempo non ti rivedo! Sono venuto a
trovarti, come ti avevo promesso!-
La
vecchietta proseguì senza un minimo segno di attenzione: gli passò
accanto, continuando il suo borbottio, ora udibile chiaramente:
-Poverino! E' morto ad appena nove anni, povero tenero arboscello!-
-Chi
sarà morto? -pensò Giovanni, spinto dalla sua sempre viva
curiosità. -Forse quel povero garzone che è a servizio da me in
montagna?-
Un
sentimento insolito lo avvolse e gli riscaldò tutta l'anima.
Le
campane suonavano a morto, intonando il loro ritmo triste, espandendo
il loro lamento leggero. Giovanni, non ricordando alcuna preghiera,
cercò Dio con le sue parole: -Fa' che questo ragazzo sfortunato
trovi la pace almeno dopo la morte!-
Si
fece il segno della croce velocemente e ripreso dalle sue abituali
preoccupazioni, volle scendere verso la piazza in cerca di qualcuno
con cui parlare d'affari. Non poté andar oltre che per pochi metri e
quel desiderio morboso di sapere, che nei sogni è una forza
irresistibile, lo costrinse ad assicurarsi chi fosse il morto.
La
zia sostò un istante in cima alla scalinata e proseguì verso
sinistra, seguita da Giovanni, sino al prato: un fazzoletto di terra
chiuso fra le case del paese alto, dove aveva giocato con i suoi
coetanei quando era ancora un ragazzetto.
Tutti
i compaesani erano riuniti in quello spazio, incrocio fra stradine
senza sbocco e due scalinate: una folla di persone di ogni età
bisbigliava sommessamente giudizi di convenienza.
Giovanni
si tolse il berretto e lo tenne fra le mani chiuse sul petto,
avvicinandosi con prudenza e tentando di riconoscere i volti dei
presenti.
Fra
quella gente ebbe la sorpresa di rivedere i suoi parenti, di cui solo
i più giovani e i bambini erano ancora in vita, vestiti con gli
abiti scuri da lutto e il viso atteggiato a tristezza.
Le
varie voci, di falso compatimento, si diffusero alla stessa maniera
dei cerchi, che si formano nella superficie dell'acqua colpita da un
sasso.
Zio
Aldo, morto vario tempo prima mentre stava tagliando un albero,
disse: -Bravi ragazzi come lui non se ne trovano molti!-
Il
cugino Giuseppe, rivale di Giovanni in affari sino al suo ultimo
giorno, a stento tratteneva il riso: -Povero amico mio! Morire così
giovane è triste; il denaro vale molto, ma non quanto la vita.-
Nascose
il sogghigno, non adatto a un funerale, e continuò: -Ora non gli
rimane nulla, oltre alla sua anima; che Dio abbia pietà di lui!-
Il
brusio, delle persone che aspettavano innanzi alla casa del defunto,
si spense pacatamente e tutti compresero che la bara veniva portata
fuori dall'abitazione.
La
casa era quella in cui Giovanni aveva trascorso l'infanzia: la madre
velata e i suoi fratellini piangenti indossavano il lutto dei parenti
prossimi.
La
bara nera, inadatta ad un ragazzo di nove anni, uscì dalla stretta
porta, trasportata da quattro frati che stavano recitando le litanie.
Superata
la folla si fermarono accanto a Giovanni e guardandolo dall'ombra dei
cappucci, posero la cassa ai suoi piedi.
L'atto
fu compiuto con estrema prudenza, tutte le braccia agirono coordinate
da una sola volontà e il movimento di discesa ricordò la caduta di
una foglia morta.
Uno
dei monaci si chinò sopra il feretro, sollevò il coperchio,
guardando diritto negli occhi di Giovanni.
I
malinconici gesti del religioso, quasi volesse aumentare l'interesse
di Giovanni alla scoperta del defunto, si susseguirono con ritmo
lento da funzione funebre.
Quel
morto, che il paese commemorava con tanta ipocrisia, era lo stesso
Giovanni, nella figura attuale di vecchio, nella lignea rigidità
funerea in cui la morte riduce tutti.
Il
vecchio avaro urlò dal terrore e fuggì, con tutto il vigore che
aveva posseduto da giovane, verso i prati che sovrastano il paese,
chiari e primaverili: corse per la disperazione, mentre qualcosa in
lui era mutato.
Le
sue gambe e le sue braccia ritornarono giovani, diventando quelle di
un bambino: il suo corpo si liberò del bozzolo alla maniera dei
bachi da seta, perdendo la sua vecchia figura per riprendere
l'aspetto di quando aveva avuto nove anni.
Rivisse,
nel sogno, le stesse emozioni della sua infanzia, stato d'animo che
lo inserì nel mondo della natura circostante.
La
paura si trasformò in entusiasmo e tutto, attorno a lui, risultò
diverso, nonostante avesse visto quel paesaggio migliaia di volte:
fiori, alberi e cielo erano divenuti nuovi improvvisamente.
Percorse
un sentiero piano e giunse alla cascatella, che un torrente forma al
disopra del lavatoio di Sant'Alberto, e con impeto si gettò in
quell'acqua gelida e pura.
Con
un brivido di freddo si risvegliò, riportandolo alla sua grigia
dimensione, dentro il suo mondo di paure e di rancori.
Da
varie ore la vita aveva ripreso il corso del mattino, con i soliti
rumori provenienti dall'esterno della baita.
Giovanni
si levò dal giaciglio, calzò le scarpe dure e umide, con il
pensiero diviso fra il sogno e la realtà.
Qualcosa
in lui si era rigenerato, una rivoluzione era iniziata nel suo animo,
il lungo sonno gli aveva rievocato momenti del suo passato.
Emozioni
e paure, scordate da troppi anni, risalivano dal fondo della sua
intimità, con quella irruenza che talvolta hanno i ricordi creduti
sepolti dentro di noi.
Il
vecchio avaro non volle toccare cibo: si rimise subito la giacca e il
cappello per uscire all'aria aperta, lontano dagli odori di cui era
impregnata la catapecchia.
Fuori
l'attività proseguiva intensa e i suoi pastori, anche per la
presenza del padrone, stavano lavorando con più energia dei giorni
in cui si doveva migrare a valle.
Il
vecchio ancora una volta, meravigliandoli come la sera precedente,
non si soffermò a dare ordini: prese la direzione della cappelletta
della Madonna, disinteressato al carico di formaggio da portare a
valle.
Tutta
la serata precedente i pastori l'avevano trascorsa per i preparativi
del trasporto del formaggio che avveniva, normalmente, nelle ultime
settimane dell'alpeggio.
In
quell'anno l'abbondanza del prodotto esigeva un primo viaggio in
anticipo.
Questo
trasferimento era sempre stato seguito con estrema attenzione dal
vecchio avaro che, con la sua esperienza, conosceva la delicatezza
della merce e i rischi di guasti, evitabili solo usando estrema
prudenza.
L'operazione
doveva avvenire con la luna nuova, seguendo la vecchia usanza che
tutti i contadini rispettavano: principio presente in tutti i lavori
di raccolta, o di taglio, nel mondo agricolo.
Quello
doveva essere il giorno buono: il tempo non dava preoccupanti
presagi.
Per
il timore ossessivo di sbagliare, nessuno credette opportuno
prendersi la responsabilità di dare l'ordine che fossero caricati i
muli, già barbati, scalcianti e impazienti come non lo erano mai
stati.
Giovanni
andò alla cappelletta e con un gesto che non aveva ripetuto più da
quando era bambino, portò alla Madonna dei piccoli fiori: gli ultimi
della stagione, che spuntavano dall'erba rasata e li offrì
delicatamente.
Depose
quel mazzolino variopinto, aprendo la mano in un atto dolce, mentre
tratteneva dentro il petto un singhiozzo.
Il
suo animo si sciolse e pregò: -Madonna Santissima! Ti offro questi
fiori, non avendo un cuore da darti, ma ti chiedo di non farmi cadere
in preda al Diavolo! Se ciò non fosse più possibile lascia che io
possa riparare almeno a qualche torto, causato dalla mia avidità per
la ricchezza!-
Così
dicendo fece il segno della croce, poi si lasciò scivolare in
ginocchio, a capo chino.
Trascorse
così tutto il resto della giornata: guardava il paesaggio sereno dai
dossi verdi e dalle curve armoniose della valle, che proseguono sino
a infrangersi contro il ripido fianco Nord, sovrastante i suoi
pascoli.
Le
nuvole scure da bufera si addensarono nel tardo pomeriggio e si
condensavano come spettri, che si preparano per la notte.
La
nebbia ben presto arrivò a coprire il cielo limpido e il Sole
luminoso.
Gli
elementi incontrollabili iniziarono la loro avanzata, discendendo dal
versante Nord verso i pascoli, e arrestandosi oltre le vecchie
miniere di ferro, che secondo la gente erano le tane delle anime
dannate e dei demoni.
Quelle
nuvole così nere che nemmeno i più vecchi pastori ne ricordavano di
uguali, rimasero minacciose e turbolente, con un continuo turbinio di
venti che le agitavano come vele in una burrasca.
Giovanni,
vedendo che Satana manteneva le sue promesse, era rassegnato al suo
destino, si rifece il segno della croce e con un filo di speranza
chiese alla Madonna aiuto: -Santa Madre! Non lasciarmi in balia del
volere dell'Inferno!-
Si
accusò delle proprie colpe e in particolare, della sua assurda
avarizia, che gli aveva causata l'ostilità dell'intero paese: -Tutti
mi sono nemici! Nessuno mi ama, dietro di me lascio una scia di
indifferenza e di antipatia!-
Quel
giorno, pur così denso di avvenimenti, gli sembrò il più breve
della sua vita.
L'ordine
di carico del formaggio si fece attendere e gli uomini si dedicarono
ad altre piccole faccende.
Verso
sera i suoi lavoranti cominciarono a preoccuparsi per il maltempo,
abbandonando l'idea di poter scendere in giornata in paese.
Tutto
il bestiame fu raggruppato nei recinti, ben chiusi, per impedire che
qualche animale fuggisse impaurito per la tempesta incombente.
Nessuno
si sottrasse alla continua e frenetica attività di copertura, di
chiusura e di fissaggio.
Giovanni,
indifferente a tutto, ritornò alla baita e si pose sul pagliericcio:
seduto con le gambe penzoloni, le mani strette sul bordo e il corpo
dondolante avanti e indietro.
I
lavori continuavano e tutto andava per il meglio, anche senza i
puntiglioso controlli del vecchio.
La
notte calò inesorabile e pesante, rendendo l'aria fredda.
Tutti
avvertirono l'angoscia istintiva del pericolo.
I
vecchi pastori, esperti nell'individuare la presenza malefica e nella
lettura dei simboli di prossima disgrazia, si fecero il segno della
croce.
Recitarono
brevi orazioni; rimproverarono i più giovani per la loro noncuranza
e li invitarono a far lo stesso, poi ordinarono di chiudersi al
sicuro.
Il
vecchio avaro, isolato sul suo pagliericcio, sembrò che avesse perso
il lume della ragione, agitandosi come una bestia in gabbia.
Gli
uomini, seduti sugli sgabelli o sui tronchi, si prepararono la cena
al fuoco del camino, nell'unico locale della baita.
Chiacchieravano
piano, timorosi ormai solo del finimondo che si stava scatenando
fuori, senza più bestemmiare, usando le parole più caute che
conoscevano: -Questo benedetto fuoco oggi non si
vuol
accendere! -Brontolò per tutti Michele. -Il vento impedisce un buon
tiraggio nel camino. E' la prima volta, da quando sono nato, che vedo
un tempaccio così!-
Seduto
al suo sgabello, nel posto di riguardo vicino al fuoco, Gabriele, il
più vecchio fra i pastori, non parlava.
Egli
saliva in montagna con la bella stagione: per la sua tarda età era
addetto ai mestieri meno pesanti ma, sfruttando la sua esperienza,
diagnosticava le malattie degli animali e degli uomini.
Era
rispettato anche dal vecchio avaro, che non osava mai dire nulla
contro di lui, timoroso di alienarsi la simpatia dei suoi dipendenti.
Quella
sera l'espressione del vecchio erborista era cupa, indizio delle sue
preoccupazioni.
Gli
uomini attendevano con ansia qualche spiegazione e finalmente: -Che
Dio abbia pietà di noi e di colui che, tra noi, è causa dello
scatenarsi dello Spirito del male!- esclamò in tono energico
Gabriele, in modo da essere udito anche da Giovanni.- Le potenze
della notte escono solo se qualcuno le chiama. Che Dio abbia pietà
del colpevole!-
Le
campane suonarono l'Angelus, segnando la fine delle ore del giorno e
Satana giunse per compiere il suo lavoro: lui stesso era il cuore
della tempesta, vento fra il vento, enorme figura nera di nubi dalla
forma indefinita.
La
sua forma era evanescente, si mise a tormentare la montagna, con
grandine e colpi di vento impetuosi: strappò fiori ed erba,
agitandoli continuamente nell'aria.
Il
suo mantello strisciò sul suolo e rastrellò le rocce più piccole.
Le
sue mani strappavano le pietre di maggior peso, rendendole prima
rosse e poi viola per il colore, gettandole con una parabola
altissima sui prati puliti, appena sopra il monte.
Quelle
strane stelle cadenti sibilavano con un fischio acutissimo: facevano
tacere i muggiti del bestiame terrorizzato.
Bruciavano
nel cielo, segnandolo con code di fuoco azzurro e morendo sul terreno
dopo un piccolo scoppio.
Gli
arti posteriori del mostro, nodosi e verdi come quelli dei ramarri,
razzolavano sul terreno, raccogliendo fra le unghie curve e appuntite
anche il materiale roccioso più piccolo.
In
breve, con le zampe inferiori, la lunga muscolosa coda e il mantello,
riuscì ad ammassare un mucchio di sassi di tutte le forme, alto
quasi quanto lui.
Si
tolse il vastissimo mantello, snodandolo dal collo gonfio per il
gozzo, e lo gettò sul mucchio di pietrame, per poi piegarsi
accovacciato e coprire i ciottoli con il suo vasto corpo.
Riprese
gli angoli più distanti del manto nero e li tirò a sé, per farne
un sacco da caricarsi poi sulle spalle.
Velocemente
uscì dai terreni del vecchio avaro, scaricando il suo enorme
fardello nella terra di nessuno e quindi nel pascolo dei più poveri.
Proseguì
tutta la notte con identica frenesia, sbuffando fumo e bestemmiando
tuoni.
Il
chiarore dell'alba sbucò e Satana ne gioì: non gli rimase che
pulire il bordo Sud del piano, il lato posto sopra il paese, e tutto
si poteva dire terminato.
Una
roccia dall'altezza di due uomini si staccò, con strana leggerezza,
dalla cresta del monte posto a Nord, al di sopra dei piani: precipitò
senza rotolare e si conficcò nel mezzo del prato.
Satana
aveva appena concluso il suo faticoso lavoro quando vide
che
una volontà, più potente della sua, gli si era posta contro: si
infuriò, ringhiando e facendo scempio del terreno sotto di lui.
Raccolse
le sue forze, che si erano indebolite con l'avvicinarsi del Sole e in
pochi balzi, si gettò sul macigno furente per l'ira.
Tentò
di muoverlo, puntando sulle sue zampe che sprofondarono nel suolo,
spingendolo e tirandolo in tutti i modi possibili ed in ogni
direzione: non riuscì ad appoggiarsi ad alcun sostegno e scivolò
nel fango.
Le
sue zampe tentarono di stritolare la cima della roccia, dandole tanto
calore da fondere l'amianto: essa non cedette e il calore non la
scaldò.
Le
fiamme verdi, che uscirono dalle narici di Satana, si spensero dopo
pochi istanti.
Le
campane del paese suonarono i rintocchi dell'Ave Maria, mettendo fine
al regno delle tenebre e la luce del sole avanzò contro la belva
infernale: non le servirono bestemmie o maledizioni, era stata vinta.
La
certezza della vittoria si trasformò nell'umiliazione della
sconfitta.
Fuggì
il chiarore del giorno, scolorito ed impotente, cercando rifugio
nelle viscere della montagna, dove la luce non riesce mai ad entrare.
Col
Diavolo sparirono le nubi nere e l'orizzonte ritornò pulito.
Il
primo a levarsi e a uscire dalla baita fu Giovanni, interessato al
risultato finale: ebbe l'orribile visione di un campo di battaglia.
Quasi
tutta l'erba era stata sradicata e il suo monte assomigliava ad una
fangosa valle dell'Inferno.
Enormi
impronte di rettile gigante si notavano disseminate in ogni angolo
del piano, ma non era rimasto un solo sasso.
Con
l'ansia della disperazione corse fuori, cercando qualche pietra
dimenticata che avrebbe annullato il patto, ma l'opera era completa.
Piangente
vide nel centro del prato e ben ferma, la roccia che il Diavolo non
era riuscito a smuovere.
Si
diresse verso quella, quasi non credendo al miracolo e cadde con le
ginocchia nel fango: abbracciò il masso, strumento di Dio contro il
Maligno.
Commosso,
felice, riconoscente e incapace di parlare, si sfogò in un pianto
senza ritegno.
Si
ricordò dell'oro del Diavolo e se ne volle liberare, cercandolo
nella sua tasca, ma ormai la borsa conteneva solo polvere.
La
natura intera respirava col ritorno del bel tempo: gli arbusti
lucenti rialzavano i rami verso il cielo luminoso, in quell'azzurro
profondo che fa scordare ogni tristezza.
I
compaesani di Giovanni, anche se egli non disse mai nulla, seppero
questa sua disavventura attraverso la loro capacità di interpretare
i segni della natura.
Se
la raccontarono, di padre in figlio, sino ai giorni nostri. La roccia
abbandonata dal Diavolo, proprio per indicare la sconfitta del male,
fu denominata "le corna del Diavolo".
Anche
al monte fu mutato il nome in "Avaro", a ricordo di questa
vicenda e Giovanni, convertito, perdette il suo denigrante
appellativo: divenne il benefattore dei poveri del paese.
racconto di Arduino Rossi