Il cattivo costume tutto italiano di favorire gli amici, i parenti, nel pubblico impiego, nelle relative carriere professionali è sempre presente: ci si tramanda, da padre in figlio attività professionali, che mantengono il nome del fondatore, magari vissuto cento anni fa.
Questa abitudine è ormai così consolidata da non costituire una sorpresa: pare ovvio.
Invece, secondo i "sacri" principi del liberalismo, tutto deve essere rimesso in discussione dall'impegno, dal lavoro, dalla fatica e dal merito.
L'Italia è una nazione di mammoni, con tante mamme sempre pronte ad inseguire i figli di tutte le età, con la maglia di lana, perché non si buschino un raffreddore.
Figuriamoci se si può far stancare i "marmocchi" a scuola, o "sfiancarli" con impegni stressanti.
Si è poi giovani una volta sola e le mamme, talvolta pure i papà, assecondano le scappatelle dei figli un po' lazzaroni: a impegnarsi c'è sempre tempo.
Così, talvolta, perfetti imbecilli si prendono i posti di comando, spesso dopo i quarant'anni e diventano la classe dirigente d'Italia.
Perché ci stupiamo se ditte floride, sino a poco tempo fa, falliscono, se certi personaggi, che paiono degli inetti, dirigono, guidano, impongono.
Una selezione avviene, prima o poi, ma in quel caso c'è sempre il gran calderone del pubblico impiego: lì non si va tanto per il sottile, intelligenti o stupidi, capaci o cretini, sono trattati tutti allo stesso modo.
Anzi spesso esser scemi serve a far carriera: si sa, gli allocchi servono sempre.